C’è poco da fare, la natura ne sa comunque più di noi. E se vogliamo aprirci nuove frontiere, conoscere meglio il nostro mondo oppure quelli su cui ancora non abbiamo messo piede, non ci resta che prendere esempio da modelli vincenti come quello delle piante.
Barbara Mazzolai, laureata in Biologia a Pisa, l’ha capito quando, dopo un dottorato di ricerca in Microsystems Engineerging, ha iniziato ad applicare le tecnologie più evolute allo studio dell’ambiente. «Sono partita da sensori per rilevare l’inquinamento, poi da reti di sensori, infine sono arrivata alla robotica». Oggi progetta i Plantoidi, robot che – imitando le piante – affondano le radici nel terreno, dunque crescendo dalle estremità, aiutandoci a scoprire qualcosa di nuovo su quella grande incognita che è il sottosuolo. Ed è di Plantoidi e di un futuro raccontato dalle piante – proprio come il titolo di un suo libro – che parlerà domattina (ore 11.30, sala Paladin di palazzo Moroni) intervenendo a Galileo, festival dell’innovazione, in dialogo con Emanuele Menegatti, docente di Intelligent robotics Università di Padova. «Il suolo è eterogeneo, cambia in ogni punto e a ogni ora, un robot non potrebbe muoversi», racconta Mazzolai. Invece può, se fa come le piante, adattandosi al terreno senza bisogno di tanta energia e senza distruggere l’ambiente in cui entra. «Lo fanno anche i lombrichi, che lavorano con le estremità», spiega Mazzolai, «infatti studiamo anche loro».In un primo momento le piante-robot erano pensate per analizzare i terreni agricoli, valutandone la composizione. Ma è parso chiaro a tutti che le applicazioni potevano essere tante e interessanti. Le scoperte spaziali, per esempio, perché un Plantoide saprebbe dirci cosa c’è nel terreno di un pianeta inesplorato. Ma anche la medicina. «Ormai l’unico limite vero è quello tecnologico», ammette Mazzolai. «I princìpi li conosciamo, sappiamo di cosa abbiamo bisogno e come possiamo migliorare questi robot. Non hanno cellule come le piante, è complicato farli crescere per allungamento, ma abbiamo qualche idea. Servirà tempo. Di bello c’è che siamo partiti un po’ soli e ora abbiamo tanti gruppi internazionali che ci seguono. Tra questi anche gli americani, interessati alle scoperte spaziali. Però pensiamo anche ai cambiamenti climatici, ai loro effetti, a quello che il terreno potrebbe dirci su smottamenti, frane e altre conseguenze del climate change».