di C.A., Cult di VeneziePost | 23 aprile 2016
Sono 4500 le domande per le agevolazioni fiscali riservate alle aziende che ricavano utili dai beni intangibili, contro le 800 previste. Il Veneto è la seconda regione in Italia, con 706 domande, dietro alle 1240 della Lombardia. Le aziende che cureranno l’aspetto dell’intangibile avranno modo di ottenere benefici sul lungo termine. Ce ne parla Francesco Zanotto di Cortellazzo & Soatto
Ha fatto la sua comparsa meno di due anni fa, per cui è ancora presto per valutare la sua piena portata nel mondo delle imprese; ma il Patent Box, la normativa che introduce agevolazioni fiscali per i soggetti che ricavano utili da quelli che vengono definiti con il termine inglese “intangible” – i beni intangibili, dai brevetti al know how – pare comunque aver avuto un’accoglienza entusiastica da parte delle aziende italiane. Ne parliamo con Francesco Zanotto, dottore commercialista e partner di Cortellazzo & Soatto, che interverrà nell’incontro su questo tema al Galileo Festival sabato 7 maggio alle ore 10 in aula Nievo a Padova.
Dottor Zanotto, quali sono le novità più rilevanti che il Patent Box ha introdotto?
«Innanzitutto si differenzia dalla altre agevolazioni in tema di ricerca e sviluppo perché questi, tramite il credito d’imposta, premiano solo l’investimento in quanto tale; il Patent Box invece va a detassare l’utile ottenuto dai beni intangibili, spostando l’attenzione sul risultato e chiedendo quindi di dimostrare che questo risultato c’è stato. Se un’azienda dimostra che una certa percentuale del suo fatturato deriva dall’intangible, questa percentuale viene detassata al 50%. Si tratta di una grande rottura con il passato, che corrisponde alla presa di coscienza del fatto che i beni intangibili hanno una valenza sempre maggiore nella creazione di modelli di business, e si valorizza il loro ruolo nel pianificare l’attività dell’azienda. Inoltre è un provvedimento che va a stimolare ulteriormente gli investimenti in ricerca e sviluppo, sommandosi alle agevolazioni già previste».Come si pone l’Italia sotto questo profilo rispetto agli altri Paesi europei?
«A livello internazionale normative analoghe sono presenti già da 15-20 anni: introdurle diventava quindi necessario, per non trovarsi circondati da Paesi in cui è più conveniente fare business con i beni intangibili. L’intento è infatti anche quello di riportare a casa le aziende italiane che si sono spostate all’estero appunto per questo motivo, e suscitare l’interesse anche degli investitori stranieri. Rispetto al confronto con i Paesi esteri, l’unico punto di domanda può porsi riguardo ai marchi commerciali, che l’Italia ha incluso nella definizione di beni intangibili a differenza degli altri Paesi suscitando l’attenzione dell’Ocse: se dovessero essere esclusi questo potrebbe rappresentare un problema per il Made in Italy, per il quale i marchi sono beni di grande rilevanza: tanto è vero che il 36% delle richieste pervenute all’Agenzia delle Entrate riguarda appunto i redditi derivanti dall’utilizzo dei marchi, mentre solo il 18% riguarda i brevetti».
Come hanno accolto il Patent Box le aziende italiane?
«La conoscenza del provvedimento c’è ed è molto ampia, tanto che l’Agenzia delle Entrate ha ricevuto 4500 domande contro le 7-800 attese. Le istanze verranno analizzate entro il 30 luglio di quest’anno e quindi non è ancora possibile dire quante ne verranno accolte, ma sono comunque numeri significativi di come l’interesse sia vivo. Il Patent Box farà indubbiamente sentire appieno i suoi effetti nei prossimi anni, trattandosi di una normativa di sistema che prevede a regime 5 anni rinnovabili: per cui le aziende che cureranno l’aspetto dell’intangibile avranno modo di ottenere benefici sul lungo termine. E’ invece ancora presto per avere dati su quella parte della normativa che prevede la detassazione totale della plusvalenza ricavata dalla vendita dell’intangible da parte delle società che producono e vendono appunto beni intangibili se reinvestita in ricerca e sviluppo: il testo prevede due anni per reinvestirla, che non sono ancora trascorsi».
E per quanto riguarda il Nordest nello specifico? Come si pongono le pmi in particolare?
«Un dato significativo è che il Veneto è la seconda regione in Italia, con 706 domande, dietro alle 1240 della Lombardia. In quanto alle Pmi, quello che vediamo concretamente nel nostro lavoro è che, essendo necessario un supporto di tipo consulenziale non comune per la corretta valutazione del valore dell’intangibile e della gestione dei rapporti con l’Agenzia delle Entrate, questo può costituire per le piccole realtà una barriera all’ingresso, perché non giudicano conveniente sostenere questi costi a fronte di un beneficio economico che, su un fatturato contenuto, risulterebbe modesto: tanto è vero che a livello nazionale sono poco più di 600 le richieste pervenute da imprese con un fatturato inferiore al milione di euro, contro le 1.300 di quelle giunte da imprese con fatturato tra i 10 e i 50 milioni. Ma il fatto che il Veneto, che “vive” di pmi, sia secondo in Italia, è un segnale che qui anche le piccole imprese sono più sensibili che nel resto del Paese».
Dottor Zanotto, quali sono le novità più rilevanti che il Patent Box ha introdotto?
«Innanzitutto si differenzia dalla altre agevolazioni in tema di ricerca e sviluppo perché questi, tramite il credito d’imposta, premiano solo l’investimento in quanto tale; il Patent Box invece va a detassare l’utile ottenuto dai beni intangibili, spostando l’attenzione sul risultato e chiedendo quindi di dimostrare che questo risultato c’è stato. Se un’azienda dimostra che una certa percentuale del suo fatturato deriva dall’intangible, questa percentuale viene detassata al 50%. Si tratta di una grande rottura con il passato, che corrisponde alla presa di coscienza del fatto che i beni intangibili hanno una valenza sempre maggiore nella creazione di modelli di business, e si valorizza il loro ruolo nel pianificare l’attività dell’azienda. Inoltre è un provvedimento che va a stimolare ulteriormente gli investimenti in ricerca e sviluppo, sommandosi alle agevolazioni già previste».Come si pone l’Italia sotto questo profilo rispetto agli altri Paesi europei?
«A livello internazionale normative analoghe sono presenti già da 15-20 anni: introdurle diventava quindi necessario, per non trovarsi circondati da Paesi in cui è più conveniente fare business con i beni intangibili. L’intento è infatti anche quello di riportare a casa le aziende italiane che si sono spostate all’estero appunto per questo motivo, e suscitare l’interesse anche degli investitori stranieri. Rispetto al confronto con i Paesi esteri, l’unico punto di domanda può porsi riguardo ai marchi commerciali, che l’Italia ha incluso nella definizione di beni intangibili a differenza degli altri Paesi suscitando l’attenzione dell’Ocse: se dovessero essere esclusi questo potrebbe rappresentare un problema per il Made in Italy, per il quale i marchi sono beni di grande rilevanza: tanto è vero che il 36% delle richieste pervenute all’Agenzia delle Entrate riguarda appunto i redditi derivanti dall’utilizzo dei marchi, mentre solo il 18% riguarda i brevetti».
Come hanno accolto il Patent Box le aziende italiane?
«La conoscenza del provvedimento c’è ed è molto ampia, tanto che l’Agenzia delle Entrate ha ricevuto 4500 domande contro le 7-800 attese. Le istanze verranno analizzate entro il 30 luglio di quest’anno e quindi non è ancora possibile dire quante ne verranno accolte, ma sono comunque numeri significativi di come l’interesse sia vivo. Il Patent Box farà indubbiamente sentire appieno i suoi effetti nei prossimi anni, trattandosi di una normativa di sistema che prevede a regime 5 anni rinnovabili: per cui le aziende che cureranno l’aspetto dell’intangibile avranno modo di ottenere benefici sul lungo termine. E’ invece ancora presto per avere dati su quella parte della normativa che prevede la detassazione totale della plusvalenza ricavata dalla vendita dell’intangible da parte delle società che producono e vendono appunto beni intangibili se reinvestita in ricerca e sviluppo: il testo prevede due anni per reinvestirla, che non sono ancora trascorsi».
E per quanto riguarda il Nordest nello specifico? Come si pongono le pmi in particolare?
«Un dato significativo è che il Veneto è la seconda regione in Italia, con 706 domande, dietro alle 1240 della Lombardia. In quanto alle Pmi, quello che vediamo concretamente nel nostro lavoro è che, essendo necessario un supporto di tipo consulenziale non comune per la corretta valutazione del valore dell’intangibile e della gestione dei rapporti con l’Agenzia delle Entrate, questo può costituire per le piccole realtà una barriera all’ingresso, perché non giudicano conveniente sostenere questi costi a fronte di un beneficio economico che, su un fatturato contenuto, risulterebbe modesto: tanto è vero che a livello nazionale sono poco più di 600 le richieste pervenute da imprese con un fatturato inferiore al milione di euro, contro le 1.300 di quelle giunte da imprese con fatturato tra i 10 e i 50 milioni. Ma il fatto che il Veneto, che “vive” di pmi, sia secondo in Italia, è un segnale che qui anche le piccole imprese sono più sensibili che nel resto del Paese».